Cronaca

Duecento kg di hashish rubati ai narcos di Cosa nostra e i contatti con il gotha della malavita di Milano: ecco cosa c’è dietro l’agguato al tifoso milanista Enzo Anghinelli

È lo scenario inedito che emerge quasi tre anni dopo i fatti del 12 aprile 2019, quando l’uomo fu vittima di un agguato mafioso in piena regola nel centro del capoluogo lombardo. La Procura aprì un fascicolo contro ignoti per tentato omicidio indirizzando le indagini, coordinate anche dall’antimafia, soprattutto nel mondo del tifo milanista.

Duecento chili di hashish rubati ai fiduciari di trafficanti legati a Cosa nostra. Contatti di peso con il gotha della malavita di Milano come il palermitano Carlo Zacco. E ancora: Nazzareno Calaiò ras incontrastato del quartiere Barona e il narcos calabrese Massimo Cauchi, al quale solo due anni fa fu sequestrata oltre una tonnellata di droga nascosta in un garage di via Padova e poco dopo 15 milioni trovati dietro a un muro. È questo il quadro inedito che si delinea dietro l’agguato a Enzo Anghinelli, l’ex broker della droga e tifoso milanista, indicato come l’autore del furto del carico. Lo scenario emerge quasi tre anni dopo i fatti del 12 aprile 2019. Quel giorno, attorno alle 8 della mattina, Anghinelli è a bordo della sua auto in mezzo al traffico milanese della centralissima via Cadore. Viene affiancato da un Beverly scuro con a bordo due uomini. Entrambi hanno il casco. Il passeggero punta la pistola e tira il grilletto cinque volte. Un solo colpo ferisce Anghinelli alla testa mandandolo in coma ma non uccidendolo. L’ex trafficante è un miracolato. Non è la prima volta. Già nel 1998 mentre camminava in viale Forlanini un uomo gli sparò due colpi al torace. E anche allora si salvò.

Quello di via Cadore è l’episodio di sangue più grave degli ultimi dieci anni in città. Subito la Procura di Milano apre un fascicolo contro ignoti per tentato omicidio indirizzando le indagini, coordinate anche dall’antimafia, soprattutto nel mondo del tifo milanista. Anghinelli, storico tifoso rossonero, risulterà vicino a un nuovo gruppo organizzato che ha avuto degli screzi con il direttivo della Curva Sud. Diverbi finiti con qualche pugno e pochi lividi. È questo il movente? O è il furto di 200 chili di droga per un valore di circa mezzo milione di euro? La squadra Mobile indaga a 360 gradi. Con tutti i media nazionali che seguono il caso, legando l’agguato agli ambienti ultras. A quasi tre anni di distanza per il caso Anghinelli non sono stati trovati né esecutori né mandanti.

Per capire invece la vicenda dei duecento chili di droga che lo stesso Anghinelli avrebbe rubato bisogna andare al 12 aprile 2020 e cioè esattamente un anno dopo l’agguato. Quel giorno si registra un fatto apparentemente di poco rilievo. In una via del pieno centro di Milano, dove vive Anghinelli, esplode un grosso petardo. Non se ne accorge nessuno, tranne Anghinelli che chiama la squadra Mobile mentre la sorella si precipita in strada per raccogliere i resti del petardo. In quel frangente l’ex broker della droga parla informalmente con gli ispettori della Mobile. Due giorni dopo approfondisce al telefono. Il tutto, telefonata compresa, è messo nero su bianco in una annotazione della squadra Mobile depositata agli atti dell’inchiesta stralcio per spaccio di droga che ha portato all’arresto di Luca Lucci, capo della curva milanista. “Anghinelli – si legge nella nota – parlando in modo informale (…) ha risposto alle domande riguardanti le notizie raccolte da diverse fonti investigative nelle quali era stato indicato come uno dei presunti autori di una rapina da 200 chili di fumo commessa nell’estate 2016” e “pur asserendo di essere estraneo ai fatti ha riferito che queste voci gli erano già state riportate dal suo amico Nazzareno Calaiò che (…) gli avrebbe proposto il suo intervento per mettere a tacere quelle voci (…) in cambio della metà della droga”. Sempre il giorno del petardo “Anghinelli ha aggiunto che Calaiò gli avrebbe detto che anche Carlo Zacco voleva parlargli per lo stesso motivo perché pretendeva il pagamento della droga rubata”. Ora va detto che né Calaiò né Zacco risultano indagati per il tentato omicidio.

Che la droga fosse del siciliano Zacco, figlio di Nino Zacco detto Nino il bello, tra i maggiorenti di Cosa nostra al Nord durante gli anni Ottanta e tra i gestori della raffineria siciliana di Alcamo, Anghinelli spiega che gli fu riferito da altri. Chi? Ancora la nota della Mobile: “Anghinelli (…) fornisce maggiori dettagli sui soggetti coinvolti nella vicenda spiegando che fu Marco detto Lenticchia identificato per Marco Bruno Bernini, complice di Massimo Cauchi, a riferire (…) che la droga persa, da pagare, apparteneva a Carlo Zacco”. Due giorni dopo, il 14 aprile 2020, in una lunga telefonata di quasi venti minuti Anghinelli precisa meglio i fatti agli ispettori della Mobile.

Fermiamoci un istante. Fino ad ora i nomi sono tanti e soprattutto non sono mai emersi nell’inchiesta nata dalla sparatoria del 12 aprile 2019. Tra questi Nazzareno Calaiò, già coinvolto nel 2007 nella maxi-inchiesta El Nino per traffico di droga gestito dal quartiere Barona. Oggi Calaiò vive da uomo libero nella periferia milanese di Quinto Romano e ha amichevoli rapporti con Marco Gallarati, già coinvolto nell’inchiesta Laguna Blu su otto gruppi di narcos legati alla ‘ndrangheta di Limbadi e con Giancarlo Lombardi, detto Sandokan, precedenti per riciclaggio e vecchi contatti con la curva del Milan. Di droga si è occupato Carlo Zacco che oggi vive in un paese a sud di Milano non lontano da Buccinasco, storica roccaforte delle ‘ndrine di Platì. E poi c’è Lenticchia, al secolo Marco Bernini arrestato con Cauchi per un traffico di droga dal Marocco in Italia via mare a bordo dello yacht Elizabeth G. Oggi Bernini è un collaboratore. E in uno dei suoi primi verbali ha spiegato: “Conosco Cauchi dal 2000. All’epoca lavoravo trasportando hashish dall’Olanda a Milano (…). Tra le persone a cui facevo le consegne vi era appunto Cauchi al quale andavano fino a 60 chili alla volta (…). Fino al 2017 ho lavorato con Cauchi (…). Il mio compito era andare in Marocco (…). La droga veniva caricata in spiaggia su piccole barche (…). Facevano un solo viaggio all’anno di due tonnellate di hashish (…). La droga ci bastava per tutto l’anno”.

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